Viaggiando nelle Langhe, Roero, Monferrato si vedono queste casupole in mezzo ai vigneti, alcune sono, sembrano abbandonate, altre fanno un bel vedere ma soprattutto, tutte hanno una storia da raccontare, quasi sempre si tratta di romantici ricordi.
I ciabot, nati alla fine del 1800, all’inizio erano costituiti da semplici frasche o stocchi di granoturco disposti a forma di capanno, poi si evolsero da strutture instabili e temporanee a costruzioni in legno, di seguito in muratura. Nel tempo divengono pure uno strumento per rendere pubblico un certo benessere economico, un potere.
I ciabot persero identità con l’arrivo delle macchine agricole e dei mezzi veloci di trasporto. Però, dentro quelle casupole sono rimaste le storie da raccontare.
Una ve la raccontiamo oggi, a parlare è Sara Vezza, la responsabile di una importante cantina – Josetta Saffirio di Monforte d’Alba (CN) –
Qui in Piemonte noi figli di famiglie contadine e vignaiole abbiamo una parola unica che ci rimanda subito a un significato ben preciso, una parola che nel resto del mondo non esiste o forse vorrà dire poco o niente ma che, nella mia testa, risuona con la voce dei miei nonni e dei miei genitori.
Il ciabot
Così lo chiamiamo in Langa, in Monferrato lo chiamano casot, ma è la stessa cosa. Il ciabot, per chi non conosce il Piemonte, è una piccola casetta che se ne stà in mezzo alle vigne, quasi a proteggerle e a vegliare sull’uva. In verità l’uso del ciabot è sempre stato meno poetico di quel che sembrava da fuori: era il magazzino degli attrezzi dei lavoratori delle vigne, abitato da animaletti come ragni, insetti, qualche topolino di campagna e uccelletti di tutti i tipi.
Il ciabot nasce da lì, dalle necessità quotidiane di chi lavorava la terra tutti i giorni e tutti i giorni aveva bisogno di portarsi dietro le attrezzature o ripararsi da un improvviso temporale estivo mentre si era in vigna a lavorare. La soluzione è stata naturale, una piccola costruzione in muratura che potesse tenere riparo a scorte d’acqua, di cibo o di persone
Alcuni dei miei ricordi di bambina mi vedono nelle calde giornate di primavera o di estate, giocare a piedi nudi e spensierata tra le vigne, fare merenda appoggiata al tavolo del ciabot con pane e marmellata, pane e zucchero o con frutta fresca. Quattro salti dopo colazione in compagnia di coccinelle, farfalle, api segno di una natura viva e silenziosamente laboriosa. Nel corso della giornata correndo tra i filari, mi capitava spesso di trovare qualche nido di uccellini, le loro testoline spuntare tra le foglie. Il nonno mi aveva insegnato a distinguere il pettirosso dalla cinciallegra. A sera la famiglia, deposte le attrezzature, si radunava intorno a quel tavolo, era la fine della giornata di vendemmia, ancora poco e calava il buio. Bellissimi i momenti quando la sera si decideva di cenare tutti insieme in vigna, stanchi, sporchi ma felici per quell’uva raccolta che dava inizio a un vino nuovo.
I ciabot sono davvero ovunque tra Langhe, Roero e Monferrato. Ogni vigneto ha il suo guardiano in muratura che se solo potesse parlare avrebbe storie di generazioni di famiglia da raccontare, storie felici e tristi, storie di arrivi e di partenze, di vendemmie buone e di anni di crisi, di siccità, di anni difficili ma anche di anni soleggiati e sereni, di voci di bambini e di racconti di anziani.
E il ciabot è diventato Patrimonio Unesco.
Una cosa che avevamo sempre sotto gli occhi si è rivelata un tesoro, prezioso non solo per noi ma per tutti. Bellezze semplici che narrano di un tempo in cui ancora i ritmi dell’uomo erano i ritmi della natura e fra i due c’era una storia d’amore forte e matta. Noi piemontesi siamo fatti così: lavoriamo con la testa bassa concentrati sui frutti della nostra terra e intanto costruiamo o abbiamo a che fare con tesori dal valore inestimabile, come i nostri ciabot, casette vive piene dell’energia della vigna.