ARAMENGO

Ricordo i tempi di quando ero ragazzo; studente non molto convinto, io ed un carissimo amico eravamo spesso in giro e spesso ci fermavamo a combinare qualche marachella a casa sua, ritenuta da me più accogliente della mia.

Lì c’era la mamma di Roberto, si chiamava ADA, era una donnina piccola, mah, forse non così piccola, snella, tutta verve, occhi vivacissimi e ricordo qualche capello bianco insinuato in una capigliatura molto scura. Quando combinavamo qualcosa: correre in bici troppo forte sull’aia o quello che la mandava in bestia, quando rubavamo dei salumi che erano appesi in cantina, salumi che dovevano durare un anno, fino alla prossima uccisione del maiale.

Per calmarla, io, l’ abbracciavo e la baciavo e qualche volta me la prendevo in braccio; lei si dimenava con tutte le sue forze per divincolarsi e una volta riuscita, mi urlava in veneto:” Te si un lazaron, và ARAMENGO”.

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Ecco, il “và ARAMENGO”, mi ha sempre riportato nel tempo alla mia gioventù ed alla carissima ADA, mamma del mio amico, ma, un po’ anche mia.

Poco tempo fà, percorrevo una stradina tortuosa della provincia di Asti, mi apparve la scritta ARAMENGO, nome di un paesino carino, arroccato su una collinetta coperta da vigneti schierati come soldatini al sole.

Inevitabile per me chiedere spiegazioni: a ARAMENGO, un tempo, finivano gli astigiani che non si erano comportati bene in città, prima venivano redarguiti, poi, se persistevano nell’illegalità, venivano mandati al confino a ARAMENGO. Era il paese dove si espiavano le colpe.

Quando l’Italia fu unita e i soldati piemontesi furono mandati in meridione per tutelare l’unità, si portarono dietro anche il detto “và a aramengo”, detto che si propagò successivamente su tutto il territorio.

A me ARAMENGO mi portò indietro nel tempo e mi ripropose il volto della mia seconda mamma, la mai dimenticata ADA.

 

 

 

 

 

 

 

 

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